* di Danny Guido
“Studio tanto, ma è come se le cose che imparo e che so, di cui sono certo, mi si sfocassero o potessero sparire, a un certo punto, quando faccio l’interrogazione. Mi blocco. I miei genitori sono preoccupati, anch‘io… e gli insegnanti mi dicono che sono insicuro…. e lei?”
Questa è la domanda di A. un giovane studente di liceo a metà del suo percorso formativo, portata al CTIF con tutta la preoccupazione dei genitori, che vedono l’investimento e le attese proprie e del proprio figlio nei confronti della scuola e del futuro essere messi in crisi.
Ma da cosa? Proviamo a fare qualche riflessione, alcune delle tante possibili.
A. studia tanto, fa il suo dovere, ha sempre fatto il suo dovere. Eppure si blocca di fronte all’interrogazione, a quella “domanda” che implica una valutazione, un voto, che A. non può sempre eliminare con il “botta e risposta” sintetico, con il riprodurre quei contenuti che a casa sembrano ancoraggi certi e a scuola diventano “cose incerte, sfocate, che possono sparire”. Preoccupazione generalizzata, paura di sbagliare e fallire, frustrazione di non riuscire a portare a casa quanto si meriterebbe e così calmare/evitare l’ansia dei genitori, delusione personale e senso di impotenza: sono questi i vissuti di A. come di tanti altri giovani.
Il “blocco emotivo” di A. sembra parlare della crisi personale e sociale rispetto a una crescita, a uno sviluppo che si pensa come automatico, lineare, certo e inarrestabile, perciò capace di rassicurare tutto e tutti; uno sviluppo per altro garantito da un sistema sociale di servizi, anche scolastico, che nella sua strutturazione, organizzazione, ritualizzazione diventa ancoraggio esterno quotidiano e punto di riferimento interno.
E con la pandemia? E con la Dad? Fallisce l’attesa di certezze intese come realtà univoche, definite, stabili, ripetitive.
Si pensi all’impatto dell’apertura-chiusura delle scuole vissute da tanti studenti come decisioni/imposizioni improvvise e mutevoli; alle implicazioni delle scuole aperte a casa con una didattica che passa dal reale al virtuale, concentrando e confondendo studio e altri ambiti di vita in un unico ambiente (casa/camera), in un investimento quasi totalizzante del computer che compensa e assorbe in modo predominante ogni aspetto del vivere.
Rispetto a ciò, ad esempio in psicoterapia A. si è confrontato con il fallimento di un proprio modo di essere e funzionare fondato sulla credenza che “la scuola è una cosa mia”, intima e quasi segreta e sulla separazione tra mondi che si cercano di tenere divisi e sotto il proprio controllo.
Si pensi alla sensazione per tanti studenti di vivere in contatto forzato con i soli genitori a causa della pandemia, con la loro presenza nella casa-scuola vissuta come vigilanza, incombenza, reclusione nelle mura domestiche, sentendosi deprivati dei propri riferimenti, abitudini, luoghi extrafamiliari, di socializzazione amicale, di sport e attività ricreative-culturali in cui si esprime la propria “rinascita identitaria”, cioè l’autonomia, la competenza a convivere, la realizzazione affettiva. Rispetto a ciò, A. si è confrontato in psicoterapia con la sensazione di trovarsi “nel mezzo,” schiacciato come un hamburger.
È utile ricordare quanto i giovani, nel loro modo di agire i propri vissuti, soffrano per una chiusura punteggiata di conferme e disconferme, di informazioni e indicazioni contraddittorie e conflittuali. La frustrazione per molti di loro si esprime nell’immagine rabbiosa di incompetenza di chi decide le norme, in quanto per loro lo fa in modo non condivisibile e imprevedibile.
Tale rappresentazione del mondo adulto li porta a trasgredire le norme nel tentativo disperato e disorganizzato, non sempre riuscito, di opporsi alla passiva stanchezza del sopravvivere al perdurare della pandemia, in un contesto sociale precario e rispetto a un futuro vissuto come incerto.
L’incertezza e la confusione evocata dal Covid quale “nemico invisibile”, la necessità/obbligo di protezione e distanziamento sociale, la chiusura del “fuori” per stare a contatto con il “dentro” (la casa, sé stesso) ha messo in discussione tanti ragazzi.
Nel caso di A. tutto ciò ha interrotto alcuni schemi fisici, relazionali o mentali che lo portavano a “fare scuola” secondo un automatismo stabilito dall’esterno. A. si è fermato prendendo contatto con sé stesso e nella psicoterapia sta rivedendo la propria “storia” o esperienza di scuola, chiedendosi cosa rappresenta per lui in vista del proprio futuro.
Grazie al sostegno dello psicologo A. è riuscito a sensibilizzare la scuola rispetto alle sue difficoltà, a fare dei patti con sé stesso e con una realtà (scuola, famiglia, psicoterapia) che ora sente che gli può “dare una mano”. Inoltre sta riscoprendo e rafforzando risorse proprie su cui fondare la propria autostima e possibilità di crescita.
Ciò fa pensare come, soprattutto per un “adolescente in formazione”, il tema della motivazione, del proprio sentimento e atteggiamento nei confronti di un percorso formativo, di crescita, di vita in diversi contesti diventa fondamentale, soprattutto in questo periodo storico.
Da questo punto di vista: orientarsi un po’, è respirare!
* Danny Guido psicoterapeuta presso CTIF, specializzato in psicoterapia a orientamento psicoanalitico e analisi della domanda. Si occupa anche di orientamento, integrando nella propria formazione una specializzazione in formazione, gestione e sviluppo delle risorse umane.
Collabora con la rivista di psicologia clinica (www.rivistadipsicologiaclinica.it)