Ha quasi trent’anni, I., ma l’aspetto di un eterno ragazzino. Bel viso, bel sorriso, un po’ perso tra le nuvole. È uno di noi, si confonderebbe tra la folla incessante senza attirare particolarmente l’attenzione. Ma la sua storia, la sua gestione del quotidiano e le potenzialità di rinascita sono degne di attenzione e meritano di essere lette.
Il suo primo accesso risale a marzo di quest’anno: presenta un foglio di dimissioni dall’ospedale, dove era stato ricoverato per abuso etilico, e chiede un posto letto. Seguito anche dal NOA (Nucleo Operativo Alcologia), riferisce il consumo di circa tre bottiglie di vino al giorno e frequenti crisi epilettiche. Alcuni percorsi comunitari per superare la dipendenza non hanno fruttato quanto sperato.
Nel mezzo un rapporto burrascoso con la madre. Come un angelo (fragilissimo) emerso da un mare in tempesta, I. è figlio di uno stupro e a sua volta vittima di violenze paterne. Il padre, una volta ricevuto l’ordine di allontanamento dalla famiglia, è tornato in Brasile. Alla madre, invece, l’ingrato compito di fare i conti con le violenze subite e di guardare negli occhi il frutto di quelle violenze.
La nostra assistente sociale Cecilia lo conosce nelle ultime settimane e inizia a entrare, a piccoli grandi passi, nel suo mondo. Riesce, anche grazie al lavoro dell’educatrice Francesca (la prima a intercettarlo a marzo allo sportello) a riservare un posto per lui in una piccola casa-comunità: “Tutto merito suo. Ha la capacità di farsi amare da chiunque lo incontri. Questa realtà non accoglie persone con dipendenze attive, ma per lui avrebbe fatto eccezione”. Avrebbe, perché I. ha rifiutato l’accoglienza all’ultimo. Espulso dall’ostello in cui stava dormendo da qualche settimana (grazie all’aiuto di un amico e ai soldi guadagnati con la prostituzione), il ragazzo si rifugia in strada nei pressi della Stazione Centrale.
Ma I. non è tipo da strada, dove peraltro ha perso i pochi documenti di cui era in possesso e i farmaci antiepilettici. Viene così inserito in una struttura d’accoglienza, di quelle aperte H24 e tutto l’anno. L’inizio non è dei migliori: accolto all’ingresso, cade a seguito di un nuovo attacco epilettico. Da quel giorno è passato circa un mese e il ragazzo è ancora in struttura.
In questo mese qualcosa è cambiato. Cecilia è riuscita ad agganciare la madre, che seppur poco consapevole dei devastanti danni psicofisici subiti dal ragazzo, si è dimostrata preoccupata per suo figlio e disposta a riaccoglierlo in casa a patto che cominci un serio percorso di riabilitazione. Lo stesso ragazzo ha riconosciuto di essere vittima di una dipendenza grave, tale da fargli perdere del tutto il controllo sulla sua vita: dipendenza che si è rivelata negli anni un ottimo anestetizzante contro i pensieri negativi che lo tormentano senza sosta. In attesa dell’ingresso in una comunità, I. ha iniziato un percorso settimanale con lo psicoterapeuta del nostro dormitorio. I. sta riattivando l’ormai compromessa rete familiare e amicale: si è riavvicinato alla madre, ha abbozzato timidi contatti con il fratello, ha ripreso quelli con le sue migliori amiche (non alcoliste, ci tiene a specificarlo). Ma i tempi sono stretti e la stessa Cecilia riconosce che si tratta di una fase potenzialmente critica: I. non ha smesso di bere, utilizza frequentemente una nota applicazione per incontri occasionali, dorme saltuariamente fuori dal centro. Senza stimoli e senza interventi risolutivi nell’immediato, il rischio è che la situazione possa sfuggire nuovamente di mano.
Solitamente ci piace raccontare storie a lieto fine. Il capitolo I. non è (ancora) a lieto fine, ma l’impegno di Cecilia, delle assistenti sociali del dormitorio e la rete di servizi che lo seguono è un necessario e innegabile step. Ed è anche giusto, ogni tanto, sottolineare le difficoltà e le fatiche che si incontrano tutti i giorni in questo lavoro. Una cosa però è certa: noi andiamo avanti, con tanta fiducia e tanta tenacia.