di Barbara Moretti
Criminologa e coordinatrice dei progetti carcere di Spazio Aperto Servizi

Separarsi non è mai semplice; implica energie, l’elaborazione del senso di fallimento, la riorganizzazione della propria identità. Se poi si hanno dei figli, la separazione può essere ancora più dolorosa e difficile da gestire perché implica anche la necessità di individuare nuove modalità di essere genitori e nuovi accordi nell’interesse dei figli.

Se uno dei due genitori è in carcere, la separazione della coppia genitoriale è ancora più difficile da accettare, ma soprattutto da gestire e il continuare ad essere genitori può diventare fonte di grande sofferenza. L’equipe di sostegno alla genitorialità che lavora all’interno delle carceri milanesi si occupa anche di questo: della richiesta di aiuto di papà che non riescono più ad avere contatti con i propri figli, di mamme che, troppo ferite dai comportamenti dei compagni, decidono unilateralmente di non permettere più alcun rapporto con i bambini, di papà impotenti e in balia delle scelte di chi è rimasto fuori dal carcere, di figli che sono gli inconsapevoli oggetti di ricatto affettivo o anche finanziario.

Il ruolo degli operatori è quello di cercare forme di mediazione a distanza tra le madri che rimangono fuori a gestire da sole una quotidianità difficile e i padri detenuti che dipendono da altri per poter vedere a colloquio o sentire per telefono i figli. Il ruolo che hanno gli operatori all’interno del carcere, è quello di “presentificare” i figli nella mente dei padri che si sentono impotenti di fronte alla lontananza che la detenzione e la separazione mettono tra loro e i propri figli e cercare di agire non sulla base dell’emozione, ma su quello di cui realmente i bambini hanno bisogno.

Ognuno ha la propria storia e il proprio passato e, per questo, le scelte sono molteplici e, spesso, dolorose.

 

Carlos ha 25 anni; tre anni fa si è innamorato perdutamente di Maria, che di anni ne aveva 21, hanno avuto un bellissimo bambino, Santhiago, e lui le ha promesso che non si sarebbe più messo nei guai. Poi i casi della vita, l’uso di cocaina, il sentirsi stretto nel ruolo di capo famiglia e Carlos si trova di nuovo in carcere per rapina. Maria si sente delusa, tradita e sola. Decide di cancellare quell’uomo dalla sua vita perché Carlos non è più quello di cui si è innamorata a 21 anni. Decide anche che suo figlio – che ora ha un anno e mezzo – non girerà per tutte le carceri della Lombardia per fare un’ora di colloquio con suo padre e che il suo unico genitore sarà lei. Carlos le scrive, cerca di chiamarla per telefono, ma Maria è irremovibile. Carlos riesce solo a vedere di sfuggita Santhiago quando fa la videochiamata settimanale a sua mamma che gli fa vedere il suo bimbo dietro lo schermo dell’iPad, di nascosto da Maria. È passato altro tempo, Santhiago ha ora tre anni e quando vede Carlos sullo schermo del pc non sa neanche bene chi sia. Di certo non lo riconosce come suo papà.

Carlos si dispera e ne parla con le operatrici; tenta in tutti i modi di convincere Maria che Santhiago ha bisogno del suo papà; lui, che è vissuto senza papà, sa quanto può far male non averne uno. Cambia idea mille volte nel parlare con la criminologa e con la psicologa che lo seguono, ma alla fine decide: farà una segnalazione al Tribunale per i Minorenni per far valere i suoi diritti (e doveri) di padre. Vorrà dire essere seguiti dai Servizi Sociali, forse un decreto del TM che regolamenterà i rapporti, ma ormai ha capito che questo è l’unico modo per essere un padre vero per Santhiago, nonostante i suoi sbagli, nonostante la carcerazione, nonostante lui e Maria non si amino più. Ma Santhiago ha diritto di avere due genitori.

 

Diego è stato fin da piccolo seguito dai Servizi Sociali; sua mamma e suo papà bevevano tanto e litigavano ancora di più. La sua infanzia è stata traumatica anche se dei ricordi belli affiorano durante i colloqui con gli operatori: c’era Marco, un educatore simpatico che lo aiutava a fare i compiti, lo portava a calcio, lo andava a prendere a scuola così che anche lui aveva qualcuno ad aspettarlo al cancello come gli altri bambini. La paura più grande, però, era che lo portassero in comunità. Sua mamma e suo papà non erano come li avrebbe voluti, ma lui voleva stare con loro comunque e ha vissuto tutta l’infanzia con il terrore che un giorno gli assistenti sociali lo avrebbero portato via.

Ora è papà anche lui; Denise e Morgan sono i suoi due bambini che lui ama più di se stesso. Jessica, la sua compagna, è seguita dal CPS; ha avuto un’infanzia difficile e per questo i medici le danno delle medicine. Lui non beve come i suoi genitori né prende farmaci come Jessica, ma usa cocaina e questo lo porta ad entrare e uscire dal carcere. Denise e Morgan stanno con la mamma, ma Diego non la considera una brava mamma perché spesso non prende le sue medicine e urla, inoltre lo ha lasciato e ora sta con il suo migliore amico che fa lo spacciatore; gli hanno raccontato che lui a volte picchia Jessica anche davanti ai bambini, un giorno è spuntato anche un coltello e sono intervenuti i carabinieri. Diego sente che i suoi bambini sono in pericolo perché la loro mamma e il nuovo compagno non si prendono cura di loro come dovrebbero. E poi l’altro giorno Morgan gli ha detto che ora “papà” Beppe vive con loro.

Diego piange spesso, da solo e nei colloqui con le operatrici. Le dottoresse gli dicono che lui deve pensare al bene dei suoi bambini, che se crede che loro siano in pericolo, deve segnalarlo al Tribunale per i Minorenni così che possano essere aiutati a stare meglio mentre lui si trova in carcere. Diego lo sa che sarebbe la cosa giusta da fare, ma non ci riesce. Denise e Morgan non devono vivere la loro infanzia con la paura, come la sua, di essere portati in comunità. Perché si sa: gli assistenti sociali prima ti aiutano, ma poi portano via i bambini.

 

E poi c’è Roberto. Quando ormai aveva 50 anni e pensava di non poter più essere padre, sono arrivati Cristina e Giacomo, due bellissimi gemelli. Ha conosciuto la sua Maria Grazia in comunità perché tutti e due facevano uso di droga. Lei ce l’ha fatta a rimanere astinente per il bene dei bambini, lui no, c’è ricaduto, e Maria Grazia, per paura di ricominciare ad usare droga anche lei, è scappata con i bambini in Sicilia dai suoi genitori. Roberto ha pensato di impazzire e l’ha chiamata cento, mille volte, minacciandola, per farla tornare e poter rivedere i bambini. Maria Grazia, spaventata, lo ha denunciato e ha chiesto aiuto anche ai Servizi Sociali che hanno deciso che, per ora, Cristina e Giacomo non lo possono vedere. Bisogna aspettare che lui stia meglio. Ma Roberto non ci sta: sono i suoi bambini e decide di agire da solo. Manda la foto di una pistola sia a Maria Grazia che all’assistente sociale che gli impedisce di vedere i bambini.

Alla fine non ottiene nulla, se non finire a San Vittore di nuovo dopo 15 anni. Parla di quello che è successo con le dottoresse, ma non c’è modo di farlo ragionare: lui DEVE vedere i suoi bambini e nessuno, né Maria Grazia, né le assistenti sociali, potranno fargli cambiare idea. A costo di finire in carcere.

 

Queste sono tre tra le tante realtà dolorose che incontriamo ogni giorno, diverse tra loro, ma tutte accomunate dal fallimento di storie d’amore spesso vissute come “salvifiche” rispetto alla propria vita dolorosa o traumatica. Storie di papà e mamme che amano i propri figli, ma che fanno fatica a capire cosa sia meglio per loro. Storie di uomini e donne che, oltre a non essere più genitori uniti, hanno posto anche un muro di cinta ad incrinare la favola che piacerebbe a tutti: ”…e vissero per sempre felici e contenti”.