Di Claudia Turconi
Psicopedagogista all’interno della casa circondariale di Bollate.

Ci sperava proprio Maria. Di uscire. Di varcare porte e cancelli e far spaziare lo sguardo oltre paesaggi sempre uguali e troppo conosciuti. Il magistrato di sorveglianza, che si occupa dell’esecuzione della sua pena, le ha invece comunicato che dovrà rimane in carcere. Ancora. Per quanto tempo? Difficile fare una previsione perché diversi sono i fattori in gioco: l’esito di un altro processo in atto, la sua adesione ad un programma terapeutico, la sua capacità di non farsi “contagiare” dal comportamento di quelle detenute che in questo periodo non rispettano le regole e sfidano l’autorità.

Mentre ascolto Maria sento che il suo racconto mi risuona dentro. Anche io a settembre mi ero illusa che sarei uscita dal mio piccolo mondo, avrei fatto spaziare lo sguardo, riabbracciato persone che non vedevo da molto tempo. Cose che vorrei anche adesso e devo resistere al contagio di chi segue impulsi e nega la realtà, per rispondere a propri bisogni e desideri. Non posso uscire neanche io. Non ancora.

Maria mi racconta che da quando le è stata comunicata la decisione del magistrato, gli ambienti e gli spazi, a cui pensava di essersi adattata in questi due anni di carcerazione, le sono sembrati minacciosi, soffocanti e stretti. Si è sentita, sono le sue parole, come una fogliolina verde chiaro che aveva deciso di spuntare perché intravedeva la luce e l’acqua e si è vista invece ricoprire di terra. Il suo vissuto è il medesimo della poetessa Louise Glück quando scrive: “Il sole quasi non mi tocca. A volte lo vedo a inizio primavera, sorgere lontanissimo. Poi foglie gli crescono sopra, nascondendolo completamente”.

Disillusione. Maria si era illusa che fosse arrivato il momento di rinascere: le cose stavano andando come aveva pensato e sperato e tutti, operatori e familiari, le sembrava riconoscessero il suo essere diventata una persona di valore, migliore di prima. In un istante le soluzioni magiche, quelle che aveva trovato e quelle che stavano accadendo, sono evaporate come l’acqua al sole e in lei si sono scatenate paura, rabbia, odio, invidia. Ha iniziato ad avvertire fastidio per qualsiasi cosa e la lamentela è diventata il suo stile di dialogo. Ogni argomento, anche il lavoro da poco ottenuto con grande soddisfazione, è stato

oggetto di polemica e i discorsi sul Covid e le errate decisioni del governo sono state un perfetto campo di sfogo emotivo. Diffidente verso gli operatori e il compagno, che le aveva detto al telefono di non preoccuparsi, ripeteva: “Non c’è nessuno di affidabile!”. Aveva iniziato anche a confondersi con le parole, come si fa quando i pensieri si aggrovigliano. Diceva che era delusa non disillusa. La delusione ha a che fare con il tradimento, con l’offesa alla propria dignità profonda. Non è questo che è accaduto.

Le cose hanno iniziato a cambiare quando Maria ha avuto un insight: il suo errore è stato aver sognato troppo, aver sostato per lungo tempo con il pensiero in scenari magnifici che sentiva si sarebbero realizzati a breve. Freud diceva che “noi chiamiamo una credenza illusione quando nella sua motivazione viene in primo piano l’appagamento di un desiderio, a prescindere dal suo rapporto con la realtà”. L’illusione non è un fatto che deve accadere ma una fantasia, che non si ha la certezza si realizzerà. Almeno non nei tempi sperati. Maria uscirà dal carcere al termine della sua pena e anche io da casa! Il fatto che vorrei accadesse domani è tuttavia solo un desiderio, che deve fare i conti con i limiti della realtà. Limiti che aiutano me e Maria a non concentrare tutte le risorse mentali sul desiderio, a non sentirlo come totalizzante, e ci permettono quindi di investire energie su possibilità e potenzialità dell’oggi.

Ce lo insegna la piccola Khiara un modo per gestire la disillusione di fronte al “non ancora”: collocando il desiderio in un luogo che si raggiungerà in futuro, facendolo diventare un sogno imperfetto e godendo di suoi frammenti nell’oggi. Anche lei infatti si scontra con il “non ancora” che le risponde il papà alla sua domanda: “torni domani?”. Khiara ha 5 anni e il padre è il suo principe che l’ha sempre protetta, vedendola piccola, fragile, come quando è venuta al mondo, prematura. “Ti ricordi papà quando giocavamo a nascondino e tu mettevi Manuel nel cestino?”. Ciò non è mai avvenuto, ma Khiara esprime il desiderio di essere l’unica speciale per il padre, l’illusione di una perfetta fusione con lui. Una cosa che Khiara adesso non può avere; e lo sa. Tiene stretto però il suo desiderio e una dose di sana onnipotenza dicendo: “quando divento grande io ti cerco in tutto il mondo”. Intanto racconta al papà la sua vita colorata e trova difetti al suo principe ideale, che fuma e non si taglia la barba. La disillusione del non ancora per lei si accompagna al sano scricchiolare dell’idealizzazione paterna.