Non sembrava possibile ai tempi del coronavirus, eppure oggi siamo in sette in una stanza armati di mascherine e disinfettante, con le finestre aperte nonostante con il passare dei giorni la temperatura sia decisamente scesa. Qui dentro tuttavia incontro dopo incontro è cresciuto il calore, la vicinanza di chi entra in contatto con l’altro come può, attraverso gli occhi, la voce che esce dallo strato di tessuto, la presenza con il corpo. E quest’ultima cosa abbiamo scoperto essere densa di significato.
Quello che si svolge all’interno della casa circondariale di Bollate è il gruppo genitorialità rivolto ai padri detenuti.
Per misure di contenimento del Covid 19 quest’anno solo sei possono essere i partecipanti. Ad attenderci al primo incontro fuori dall’aula ci sono almeno il doppio delle persone, con fogliettini -chiamati in gergo carcerario domandine – con cui testimoniano la loro richiesta di partecipazione. Portano il loro desiderio di relazione in questo tempo in cui in carcere vedere operatori e volontari è diventato più difficile.
Dobbiamo con tristezza tenerli fuori, lasciando il messaggio di speranza che anche per ognuno di loro si proverà a creare uno spazio di parola, a due o nuovamente gruppale. C’è chi tornerà a scendere dalla cella all’aula a più riprese, puntuale alle nove e trenta, senza dire nulla ma comunicando attraverso il corpo presentato ai nostri occhi il bisogno di essere ricordato.
Questa insistenza non è dettata dalla noia di non avere nulla da fare. Non quest’anno. Lo capiamo bene dopo aver vissuto la reclusione sulla nostra pelle durate il lockdown: il vero problema non è annoiarsi, bombardati come siamo di stimoli culturali, film, musica, persino di lavoro ma soffriamo la mancanza di senso e sentiamo forte il bisogno di ricercarlo.
Noi, come chi è detenuto, non possiamo in questo momento cambiare le condizioni che ci impediscono di essere liberi ma possiamo migliorare le nostre capacità di essere liberi in queste circostanze di costrizione. È quello che il gruppo ha dato l’opportunità ai padri di fare.
Ha ad esempio permesso a Domenico di superare il suo vissuto di impotenza e la sensazione che tutto sia ormai perduto. Domenico è la rabbia che sente forte. Lui non può uscire e gli altri là fuori non si comportano come ritiene sarebbe giusto. Il risultato è che da due anni non ha rapporti con sua figlia e ricorsivo è il pensiero che nessuno la stia avvicinando a lui. Ha molta paura che il passare del tempo crei tra loro una distanza insanabile, depositaria di nostalgie, rimpianti, ferite.
Il gruppo papà fa sentire a Domenico che lui ha una linfa che gli scorre dentro. È da anni che non la sentiva più quella linfa ed era convinto di averla smarrita; è commosso nel ritrovarla. Non gli altri devono fare ma io sono ancora capace di tenere vivo il legame, si ripete.
Il gruppo ha inoltre aiutato Rodrigo ad affrontare la paura di parlare con suo figlio della fase critica di vita che stanno attraversando. Rodrigo fa un respiro profondo e racconta agli altri papà di non aver saputo rispondere allo sfogo di suo figlio di 9 anni. “Basta dirmi bugie”, gli ha detto Alejandro nell’ultima telefonata. Lui è rimasto senza parole e ne ha dette pure di sbagliate, con i pensieri confusi e un profondo senso di colpa.
Rodrigo è entrato da qualche mese in carcere e ha raccontato al figlio di essere via per lavoro. Ha sempre pensato che i bambini vadano protetti da verità tristi ma oggi con gli altri papà ha capito che in realtà ha sempre trovato una scusa per non affrontare con loro aspetti intimi della vita, che riguardano la fragilità, l’errore, il dolore.
Come parlare ai bambini di cose così difficili anche per un grande? Dopo l’incontro di gruppo Rodrigo ha raccontato ad Alejandro di essere in punizione in carcere e poi ha ascoltato le emozioni, i pensieri, i dubbi del figlio.
Alejandro nelle settimane a seguire ha aperto con il padre un canale di dialogo su altre bugie che sente i grandi gli dicono per nascondere verità che ritengono indicibili, come ad esempio che mamma ha un fidanzato, il gatto è morto, la nonna non vuole tornare dalla Bolivia.
Il gruppo ha infine fatto sperimentare a tutti che si può provare un senso di oppressione e immediatamente insieme sentire fiducia nella possibilità di andare oltre.
Per rappresentare “la forza che sorregge” un papà sceglie infatti una foto particolare che lascia tutti perplessi: un uomo con le mani che coprono il volto e lasciano intravedere gli occhi sbarrati. A molti di noi quell’immagine rimanda privazione, spavento, ostacolo al respirare liberi (come con la mascherina) e all’espressività. Il papà che l’ha scelta ce la narra invece così: la forza degli occhi sorretti dalle mani, comunicare intensamente, guardare oltre, dilatare le pupille.
Ascoltandolo arricchiamo in un istante la nostra prospettiva e spostiamo il pensiero sulla straordinaria capacità delle pupille di dilatarsi in assenza di luce o quando siamo in ricerca di qualcosa o quando sentiamo piacere come nell’innamoramento. A tutti noi in questa stanza capita in questo periodo di vivere il buio e di sforzarci per trovare la luce, i piccoli piaceri; di sentirci oppressi e guardare dalla finestra. Ora proviamo inquietudine per una bocca trattenuta ma immediatamente insieme incanto per il potere degli occhi di dilatarsi per cercare di vedere al buio e continuare a innamorarsi del mondo.
Kant diceva che la colomba vola e fende l’aria e immagina che senza la resistenza di questa il suo volo sarebbe migliore. Senza l’aria tuttavia il suo volo non potrebbe esistere.
Se come di fronte alla foto riusciamo a non fermarci alla privazione, la condizione che ci opprime potrà generare nuove possibilità. Emotivamente potremmo così dire alla fine del lockdown “questa carcerazione mi è stata utile”, come alcuni papà in procinto di uscire.